giovedì 24 maggio 2018

Solo: A Star Wars Story - Han Solo nelle mani di Ron Howard

Circa un anno e mezzo fa, usciva al cinema Rogue One: A Star Wars Story, il primo di una serie di film autoconclusivi che fanno parte del mondo di Star Wars senza relativi legami con la famosa saga.
Solo: A Star Wars Story invece è uno spin-off vero e proprio, già solo per semplice fatto che si basa sulle origini del mercenario più famoso della galassia, Han Solo, e sulla sua fedele amicizia con il wookie Chewbacca.


Solo si riallaccia e si riferisce sia alla prima che alla seconda trilogia stellare, focalizzandosi nel presente e rimanendo allo stesso tempo autonomo: ergo, lo potete vedere anche se non avete visto mezzo film della saga, anche se questo, in linea di massima, dovrebbe essere improbabile, dato che "Le uniche persone nell'universo che non hanno mai visto Guerre Stellari sono i protagonisti, perchè loro le hanno vissute, hanno vissuto le Guerre Stellari" (Cit. Marshall Eriksen).
Solo: A Star Wars Story è un film ironico, gagliardo, ricco di spavalderia e cinismo (d'altra parte deve parlare di Han Solo, no?) ma manca di pathos, di magia.
C'è l'avventura e c'è l'azione, si ride (o si sorride) ma non coinvolge. Insomma, un film dimenticabile.
Certamente mettere lì Alden Ehrenreich a interpretare il personaggio che fu di Harrison Ford è un fardello importante, bisogna avere quel certo non so che e sapersi imporre.
Non che Ehrenreich non lo faccia; non fa quasi neanche pensare a Ford mentre si visiona il film, perchè riesce a intregrarsi con il resto del cast. Ma sembra essere solo una macchietta di quel Solo che conosciamo bene.


In ogni caso, non tutte le colpe sono da imputare al giovane attore americano.
E nemmeno sarebbero tutte da imputare al regista, Ron Howard, arrivato a luglio dello scorso anno a girare il film quasi dal principio dopo il licenziamento di Phil Lord e Christopher Miller
causa divergenze creative con la Lucasfilm.
Detto in soldoni, Howard è dovuto andare un po' di fretta per finire le riprese e rifare quelle che per la produzione non andavano bene (e che ben si potessero amalgamare con il resto).
La sua regia è dinamica e realizzata da inqudrature tutto sommato semplici ma in Solo non c'è la solita armonia che pervade gli altri film di Howard (problema riscontrabile, come già detto, nel rigirare gran parte del film in circa 5 settimane e con 3 settimane a disposizione per girare la parte mancante).
Forte, come la saga, della componente musicale, con il tema principale realizzato da John Williams, Solo: A Star Wars Story è un film in fin dei conti abbastanza godibile, che si presta a possibili filiazioni cinematografiche, ma nulla di più.

martedì 22 maggio 2018

Downsizing - Vivere alla grande: Home Edition

Dal 23 maggio potrete trovare in tutti gli store l'edizione home video di Downsizing - Vivere alla grande, che si potrà trovare sia in Dvd, che nella versione Blu Ray. Il film è inoltre disponibile dal 10 maggio anche in Digital HD.
Il film, del regista Alexander Payne (Paradiso Amaro, Nebraska) con Matt Damon, Kristen Wiig, Hong Chau e Christoph Waltz, ha aperto lo scorso anno la 74a Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia (oltre che essere in competizione per il Leone d'Oro).


Quando gli scienziati trovano il modo di rimpicciolire gli esseri umani fino a quindici centimetri di statura, Paul Safranek (il premio Oscar® Matt Damon) e sua moglie Audrey (Kristen Wiig) decidono di sottoporsi al processo con la speranza di una vita migliore in un lussuoso mondo in miniatura. Piena di avventure che cambiano la vita e infinite possibilità, Leisureland offre molto di più della semplice ricchezza: Paul scopre un mondo totalmente nuovo e capisce che siamo destinati a qualcosa di più grande.
Grazie a Universal Pictures Home Entertainment Italia, possiamo dare un'occhiata alla versione Blu-Ray del film e ai suoi numerosi contenuti speciali.



Appena dopo aver inserito il dvd nel lettore e dopo aver scelto la lingua, si arriva alla schermata principale, basica e di facile intuizione.
Oltre a dare avvio al film, questa schermata consente anche di scegliere tra Opzioni (Audio e Sottotitoli), la scelta delle Scene e dei numerosi contenuti extra.

Selezionando con i tasti del telecomando le ultime tre opzioni, sarà di facile intuizione scegliere l'audio e i sottotitoli disponibili ( le lingue disponibili per l'audio l'Inglese, Italiano, Francese, Tedesco, Spagnolo, Russo, Polacco, Ceco, mentre per i sottotitoli Italiano, Inglese, Arabo, Malese, Cantonese, Mandarino, Ceco, Coreano, Danese, Ebraico, Olandese, Finlandese, Francese, Tedesco, Greco, Hindi, Norvegese. Ungherese, Islandese, Polacco, Portoghese, Russo, Slovacco, Spagnolo, Svedese, Thailandese, Turco, Rumeno), una delle numerose scene disponibili oppure una delle featurette presenti nei contenuti speciali (determinante il fatto che ogni featurette sia autoconclusiva e che a suo termine vi sia il ritorno in automatico al menù principale e che, quindi, non vengano riprodotte consecutivamente in modo automatico).



CONTENUTI SPECIALI DEL BLU-RAY: 

Lavorando con Alexander
Il Cast
Un viaggio visivo
Una questione di prospettiva
Quel sorriso
Una preoccupazione globale


Se in Lavorando con Alexander è possibile venire a conoscenza di come sia nato il copione e quali siano state le emozioni del cast, dei produttori e dei principali collaboratori al film, in Il Cast sarà possibile capire come sia avvenuto il lavoro di casting per realizzare il film.

Con Un viaggio visivo e Una questione di prospettiva si cerca di capire come si sia lavorato tecnicamente al film, grazie al lavoro di grandi professionisti, come quello della scenografa italiana Stefania Cella.
Mentre Quel Sorriso è una featurette incentrata sulla persona Matt Damon e sulle affinità con il suo personaggio, in Una preoccupazione globale viene affrontato il tema della sovrappopolazione e dei cambiamenti climatici. Cosa potrebbe accadere se degli scienziati norvegesi scoprissero come rimpicciolire la gente a 12 cm? Il beneficio sarebbe di ridurre il nostro impatto sulla Terra.



Detto questo, non occorre altro che acquistare una copia di questo film e immergersi in un'avventura che vedrà intrecciarsi diversi mondi. Una commedia amara, sincera e portatrice di profondi riflessioni.


INFORMAZIONI TECNICHE BLU-RAY™:

Titolo: Downsizing - Vivere alla grande

Durata: 2 ore e 15 minuti ca.

Genere: Commedia

Paese: Usa

Regia: Alexander Payne

Sceneggiatura: Alexander Payne, Jim Taylor

Fotografia: Phedon Papamichael

Montaggio: Kevin Tent Cast: Matt Damon, Neil Patrick Harris, Kristen Wiig, Jason Sudeikis,
Christoph Waltz, Hong Chau

Dischi: 1

Video: 2.39:1

Audio: Inglese Dts-Hd Master Audio Surround 7.1 / Italiano, Francese, Tedesco, Spagnolo, Russo, Polacco, Ceco Dolby Digital Surround 5.1

Sottotitoli: Italiano, Inglese, Arabo, Malese, Cantonese, Mandarino, Ceco, Coreano, Danese, Ebraico, Olandese, Finlandese, Francese, Tedesco, Greco, Hindi, Norvegese. Ungherese, Islandese, Polacco, Portoghese, Russo, Slovacco, Spagnolo, Svedese, Thailandese, Turco, Rumeno

Contenuti Speciali: • Lavorando con Alexander • Il Cast • Un viaggio visivo • Una questione di prospettiva • Quel sorriso • Una preoccupazione globale

lunedì 21 maggio 2018

Dogman - Il ritorno di Matteo Garrone

Dogman non è tanto il racconto di come Pietro De Negri diventò il Canaro della Magliana per aver ucciso in modo brutale l’ex pugile dilettante Giancarlo Ricci.
Il film prende solo alcuni spunti per poi allontanarsi da questo fatto cronachistico, preoccupandosi di raccontare l’ambiguità del rapporto tra Marcello e Simoncino.
 
 
Marcello è il proprietario di un negozio di toelettatura per cani, un uomo modesto, benvoluto da tutti. Un negozio, il suo (tutto il suo mondo e il suo rifugio), che si trova nel mezzo di una periferia sospesa tra metropoli e natura selvaggia, un’ambientazione da film western nella quale l’unica legge sembra essere quella del più forte.
Ma la vita di Marcello non si divide solo tra l’amore per sua figlia Alida e per quello verso i cani. La sua vita si basa anche sul quel rapporto ambiguo con Simoncino, ex pugile che terrorizza il quartiere.

Figlio di una gestazione durata circa dieci anni, Matteo Garrone (a distanza di tre anni da Il racconto dei racconti) crea un film di così raro e semplice impatto.
La regia è semplice, segue con macchina a mano i protagonisti in preda ai loro dualismi tra umanità e bestialità, senza possibilità di redenzione. È chiaro sin dall’inizio: non c’è nessuna possibilità di salvezza.
In questo non-luogo, Marcello è l’unico portatore di dolcezza, con un solo desiderio: fare parte di una comunità. Un uomo che dopo una vita passata a subire umiliazioni decide di riscattarsi, illudendosi di aver liberato non solo se stesso, non solo il proprio quartiere ma, forse, addirittura il mondo. 
 
 
Dogman, indaga semplicemente e così profondamente l’animo umano ed i suoi aspetti più feroci, più cupi, più animaleschi.
Un’atmosfera creata, oltre che da Garrone stesso, dalla fotografia di Nicolaj Bruel priva di colori, se non quelli freddi, da musiche di tensione assoluta (di Michele Braga) e da tanti fuori campo ricchi di significato.
Ogni personaggio incluso nel film ha un ruolo preciso, nessuno fa scenografia. Ma sono due le interpretazioni coraggiose e di carattere: quella di Edoardo Pesce, nei panni di Simoncino, e quella di Marcello Fonte.
E, guardando il film, si capisce come mai Garrone abbia ripreso concretamente in mano il progetto solo dopo aver incontrato Fonte, uomo dolce e dal volto antico (pasoliniano, si potrebbe dire) che incarna quella dolcezza e senso del sopravvivere del suo omonimo sullo schermo.
 
 
Articolo integrale su My Red Carpet

domenica 20 maggio 2018

Deadpool 2 - Il ritorno dell'antieroe

L'antieroe per eccellenza è tornato ed è più cazzuto e cazzone che mai.
Generalmente, realizzare un secondo capitolo che si concentri su uno stesso protagonista, risulta quasi più difficile che realizzare il primo film.
Deadpool 2 fuga tutti i dubbi riguardo al fatto che potesse essere solo una copia del precedente: rimane sicuramente fedele alla dose di ironia e pungente sarcasmo, all'abbattimento della quarta parete e alla solita sfrontatezza. Ma riesce anche ad essere fedele al proprio impianto narrativo che mette in luce l'antieroe, scoprendone nuovi lati.


Le citazioni sono tante e rivolte non solo verso l'universo degli X-Men di cui Deadpool fa parte: nonostante ciò il film si differenzia molto dalla parodia, limitandosi a sdrammatizzare gli altri film cui si riferisce, sviluppandosi in modo autonomo.
Ciò che, però, rende Deadpool unico non è solo la forza del suo personaggio ma anche di quelli di contorno concepiti per supportare il principale (Deadpool, appunto) ma anche per portare avanti la storia.
Nonostante la sfacciataggine, il linguaggio sboccato e sfrontato, Deadpool 2 si aggiudica la denominazione di film "non solo per adulti" ma per famiglie che, a suo modo, si fa portatore di buoni sentimenti.
Non ci sarebbe Deadpool senza Ryan Reynolds che gli da una marcia in più: in questo sequel, oltre che interpretare ancora il protagonista e produrre il film, Reynolds ha collaborato anche alla sceneggiatura del film.


I colpi di scena sono tanti ma, sicuramente, ciò che contraddistingue il film, così come il precedente, è l'abbattimento totale della quarta parete (cosa che farebbe impallidire i timidi approcci di Ellery Queen) alla ricerca del contatto con lo spettatore.
Insomma, Deadpool si conferma come rilettura della versione dell'eroe classico in stile moderni e pop, con un occhio all'intertestualità e alle citazioni e un occhio rivolto al pubblico, intento ad acchiapparne una vasta fetta e a farla sua con molteplici approcci.
Un Deadpool ruffiano, piacione e sboccato ma animato da buoni propositi.

martedì 15 maggio 2018

A Beautiful Day - You were never really here


Joe (Joaquin Phoenix) è un ex marine e agende FBI, che vive nella sua casa d’infanzia e si prende cura dell’anziana madre. La sua vita, però, non è facile perché è tormentata da continui flashback del suo passato violento.
Joe si guadagna da vivere liberando delle giovani ragazze dalla schiavitù sessuale. Un giorno viene contattato da un famoso politico newyorkese, che crede che sua figlia Nina sia stata rapita da una di queste organizzazione e che sia stata costretta a prostituirsi. Il coraggioso ex militare accetta il lavoro e grazia al suo sangue freddo riesce a liberare la ragazzina, ma scopre che dietro al suo rapimento ci sono delle persone corrotte e molto potenti.



Scritto e diretto dalla cineasta scozzese Lynne Ramsay e liberamente tratto da un racconto breve di Jonathan Ames, il film si basa su inquadrature fatte di primi e primissimi piani che raccontano la devastazione mentale di un singolo per raccontare quella di un paese, di un mondo totalmente privo di morale e scrupolo.
A Beautiful Day è un film che ragiona e funziona scena per scena, che racconta una realtà allucinata, tormentata, resa autentica dalla fotografia fredda e sporca.

Joe agisce con la violenza, l’unica arma che conosce: tuttavia, il suo desiderio di vendetta si contrappone a quello della protezione e della tenerezza nei confronti della madre e della ragazzina abusata che salverà.
Le scene di violenza più cruda sono destinate al fuori campo, l’empatia non è richiesta.
A Beautiful Day vede la presenza di Joaquin Phoenix in veste di protagonista che regala una delle sue migliori interpretazioni fatte di mugugni, azioni, comunicazione verbale e non, che ben si adatta ad un film quasi senza dialoghi, narratore di un’esperienza post-traumatica.
Un film che dà quasi più importanza alla musica e ai suoni, grazie ad una colonna sonora potente e stravolta realizzata da Jonny Greenwood (chitarrista dei Radiohead, con il quale Ramsay ha collaborato anche per … e ora parliamo di Kevin).



Articolo integrale su My Red Carpet

lunedì 14 maggio 2018

Tuo, Simon - Trovare il proprio posto nel mondo

Tutti noi abbiamo vissuto quel periodo tempestoso tra adolescenza e post-adolescenza.
Un periodo custode di numerosi segreti, di primi innamoramenti, di primi scontri con le difficoltà della vita adulta.

Simon Spier (Nick Robinson) inizia a flirtare online con un suo compagno di classe, del quale conosce solo lo pseudonimo, Blue. Ma quando una delle mail che si scambiano, finisce nelle mani sbagliate, il segreto di Simon rischia di diventare di pubblico dominio. 



Tuo, Simon è un adattamento del romanzo Non so chi sei, ma io sono qui (Simon vs The Homo Sapien’s Agenda) di Becky Albertalli, del 2012.
Prodotto da Wyck Godfrey e Marty Bowen (gli stessi che hanno prodotto film quali Colpa delle Stelle, La Risposta è nelle Stelle e la saga di Twilight), Tuo, Simon non è un film dedicato solo ai ragazzi, ma adatto a tutta la famiglia.

Nel panorama dei film dedicati all’accettazione della propria e altrui omosessualità, forse questo è uno dei migliori, in termini di sviluppo concettuale: Simon è analizzato a 360°. La storia è delicata e molto empatica e  racconta profondamente i tormenti del ragazzo, le difficoltà e le paure.

Forse, l’equilibrio tra leggerezza e profondità è fin troppo marcato, ma nel complesso riesce a stare lontano dalla drammaticità, riuscendo ad essere godibile.
Tuo, Simon, non è altro che la storia di un ragazzo che prova a trovare il suo posto nel mondo, bandendo luoghi comuni e superficialità, ma di grande impatto comunicativo. Un film pronto a diventare manifesto dell’amore (per se stessi e verso gli altri). 



Articolo integrale su My Red Carpet

domenica 13 maggio 2018

Loro - Il Berlusconi di Paolo Sorrentino

Se Loro 1 era solo il preludio all'arrivo di Silvio Berlusconi, sarà proprio lui il perno centrale di Loro 2, quel Silvio (Toni Servillo) che vive sotto la maschera da Fonzarello, quello originale, forse sconosciuto persino a lui.
Un ganassa, come si dice in milanese: fanfarone e farfallone, sempre pronto a piacere a tutti, ad accontentare tutti, a pronto a dispensare ottimismo anche quando tutto diventa patetico.
 
 

Loro non vuole giudicare il self-made-man del nord. Forse lo vuole solo umanizzare.
Paolo Sorrentino tira fuori la tristezza di fondo che nasce dalla paura di invecchiare, di non essere più così benvoluto dagli italiani come un tempo, di essere respinto dalla propria moglie.
Ma Silvio è un po’ come Rossella O’Hara. Tutti e due vogliono amare altro per non fare i conti con loro stessi. Rossella ama Ashley, Silvio la sua immagine. E quando questo ideale scompare o si sgretola, arriva il momento in cui bisogna fare i conti con se stessi e diventa dura.
E via sulla giostra della finzione e del dimostrare a se stessi di essere ancora tonici, di saper ancora vendere appartamenti, per esempio.

Essere venditori significa persuadere il cliente (o il cittadino). Sapiente burattinaio delle psicologie altrui, ma in caso contrario “Lo sai cosa mi succede quando usano la psicologia con me? Niente”.
Complessi di inferiorità, decadenza, solitudine. Rimangono davvero in pochi ad esseri succubi del fascino berlusconiano.
Loro non offre cinismo gratuito, né parteggia politicamente o umanamente. In fondo racconta solo la storia di un uomo e dei suoi sentimenti più reconditi, con spazio anche per le emozioni.
 
 
 
Articolo integrale su My Red Carpet

sabato 5 maggio 2018

L'importanza di chiamarsi Mara - Una chiacchierata con Joaquin Phoenix

Giovedì 26 Aprile.
Io e due amici e colleghi (Matteo Marescalco e Laura Silvestri) ci troviamo sotto il sole del tardo pomeriggio romano.
Sono circa le 19, tra poco più di un'ora saremmo dovuti essere all'anteprima di A Beautiful Day - You Were Never Really Here, film della regista scozzese Lynne Ramsay con protagonista Joaquin Phoenix. La mattina seguente saremmo stati alla conferenza stampa di presentazione del film.

Ci troviamo in Via del Corso, verso Piazza del Popolo, andando piano piano a prendere la metro. Probabilmente Joaquin era già arrivato all'albergo da qualche ora.
Quasi nemmeno il tempo di esternare questo pensiero, che si palesa davanti a noi, in compagnia di Rooney Mara.
Scrivere di cinema (o, quantomeno provarci) non significa non essere anche fan, soprattutto di un attore che noi tutti (almeno, noi tre) stimiamo e adoriamo. Sicuramente uno dei migliori, se non il migliore attore della sua generazione.
Il tempo di guardarci in faccia e già la decisione era stata presa. Proviamo a chiedergli una foto: in fondo, quando ci potrà ricapitare?
Ci avviciniamo timorosi e discretamente lui ci porta in una via traversa alla principale. Pensiamo di averlo infastidito, magari pensa che siamo della stampa scandalistica, ma subito ci presentiamo: cerchiamo di fare i giornalisti e i critici di cinema, siamo studenti e lo stimiamo molto.
Subito iniziaamo a parlare di un po' di tutto: cosa studiamo, cosa facciamo, cosa ci piacerebbe fare, oltre che parlare del Festival di Venezia e del Sundance.
Dopo una decina di minuti a chiacchierare e facciamo qualche foto ricordo insieme a Rooney Mara, coinvolta anche lei in questo episodio ai confini della realtà: invitabile la mia battuta cretina <<Ehi, il mio nome è Mara!>>.
Dopo ciò, ci congediamo, felici di aver parlato con Joaquin, di aver condiviso qualcosa con lui.
Andiamo a vedere il film e ci prepariamo per la conferenza stampa dell'indomani.



Venerdì 27 Aprile.
L'idea di vedere ancora Joaquin ci entusiasma: è chiaro, sarebbe un sogno se si ricordasse di noi, ma non siamo così ingordi. In fondo, già averlo incontrato e aver parlato con lui la sera precedente è stato il massimo che si poteva chiedere.
Al termine della conferenza stampa si va a mangiare un boccone: in quel mentre mi arriva una chiamata da numero sconosciuto. Mi scoccia rispondere, sapendo che si tratterà sicuramente dell'ennesimo call center, ma rispondo comunque.
Mi viene chiesto se sono io uno dei tre giornalisti che la sera precedente hanno parlato con Joaquin, perchè vorrebbe concludere un discorso con noi.
La pizza mi cade dalle mani.
Dall'altra parte del telefono uno degli addetti stampa che si occupa delle attività stampa inerenti al film (che cercava noi tre da una mattina) mi dice <<Puoi contattare gli altri due? Joaquin ci ha detto di cercarvi, vorrebbe parlare con voi. Vi va di venire?>>.
La risposta è scontata: "certo che sì!".
Stupefatti e impanicati, facciamo subito una riunione di emergenza: l'obiettivo è scrivere, in quattro e quattr'otto, delle domande che abbiano un senso.
Ci dirigiamo verso l'hotel, entriamo e ci sediamo. Joaquin ci riceve poco dopo, entusiasta, felice di averci ritrovato.
Probabilmente gli siamo simpatici, ha capito che avevamo e abbiamo qualcosa da dire.
Ma, cosa in particolare, si ricordava il mio nome. Così è bastato fare qualche ricerca et voilà.
Non avessi fatto quella battuta che mi sembrava scema questo articolo non avrebbe modo di esistere e quella piccola porzione dei realtà (per quanto allucinata possa essere) non ci sarebbe mai stata. E l'ufficio stampa non sarebbe mai risalito al sito per cui collaboro (My Red Carpet) e, quindi, a rintracciarmi.
Cominciamo a parlare con Joaquin a ruota libera.
Il suo sguardo è profondo, i suoi occhi sembrano aver visto tutto quello che c’è da vedere, narratori di un’anima saggia e genuina. Una chiacchierata, più che una vera e propria intervista, a cuore e a mente aperta, tra letìzia e malinconia, tra carriera e vita quotidiana.
 
Rendersi conto di quello che è successo è come trovarsi sulla nave di Lancaster Dodd dopo una sbronza e cercare di capire come si è arrivati sin lì.


In che modo un attore come lei riesce a conciliare la persona e l’icona?
 
Quando lavoro, lavoro. La mia vita diventa lavoro e tutto quello che faccio in quel momento gira attorno al quello.
Le persone con cui lavoro diventano miei amici. Ma quando torno a casa, quando torno alla mia vita, porto fuori il cane, gli do da mangiare, pulisco casa. La mia vita torna subito ad essere quella di sempre.
Amo fare film, è molto importante per me ma anche la mia vita personale è importante. A volte credo sia pericoloso mettere il lavoro sopra ogni cosa e dimenticarsi del resto. E vedo che questo accade a diversi attori, che vengono assuefatti dalla loro carriera e la cosa mi spaventa. Certo, la carriera è importante ma non deve interferire con le mie relazioni personali e con la mia famiglia.


Chi è il suo eroe?

Probabilmente mia madre.
È una donna incredibile, quello che fa è fantastico.
Ha 74 anni e gira il mondo per la sua organizzazione. È una persona eccezionale, e cerco di diventare come lei.


Visti i film da lei interpretati, come Quando l’amore brucia l’anima – Walk the line o il mockumentary I’m Still Here, la musica è un po’ il leitmotiv della sua carriera.
Com’è il suo rapporto con la musica? Suona qualche strumento?

Ho imparato a suonare la chitarra per Quando l’amore brucia l’anima-Walk the line ed è parecchio che non la suono.
È buffo, ci stavo pensando l’altro giorno: non lo so, forse sto invecchiando, ma mi sono rattristato un po’ pensando a quando ero giovane, a quando compravo un cd con i miei amici, mi sedevo lì con loro, e lo ascoltavamo tutti insieme, per tutta la sua durata. Ogni singola canzone.
Adesso mi rendo conto di ascoltare meno musica e quando lo faccio c’è questa sensazione che mi fa dire “Ah sì, cavoli! Ricordo questa sensazione! Adoro la musica!”.
Ma a volte non la stessa cosa di quando ero un ragazzino. Forse perché quando ero piccolo non era semplice ascoltare la musica: all’epoca non era così semplice procurarsela. Venivi a sapere che sarebbe uscito il nuovo cd dei Public Enemy, ma si dovevano aspettare mesi per averlo. E ci si precipitava al negozio di dischi.
Però io adoro la musica, tutti i miei fratelli sono musicisti: mia sorella Rain fa parte di diversi gruppi, è una cantante; mia sorella Liberty ha una band della quale non ricordo il nome ma che fino a ieri ha fatto il tutto esaurito; mia sorella Summer è una pianista. Cantavo per strada quando ero ragazzino e , sì, la musica fa davvero parte della mia vita.


Qual è il suo cantante preferito?

Beh, direi che John Lennon è il mio preferito e, cavoli, amo tanto Bowie!

Non le piacciono cose più recenti, tipo le band anni ’90, tipo i Backstreet Boys?
Beh,  c’è qualche canzone che è un po’ impossibile non farsi piacere. Il pop è divertente, ma in certi contesti. Quando ascolto questo genere non mi fa emozionare. Anche se è bello divertirsi e talvolta uscirsene con “Backstreet’s Back, Alright!”


Nei film di James Gray, come I padroni della notte, Two lovers e C’era una volta a New York, i suoi personaggi sembrano dei fantasmi, hanno molti tormenti interiori e sembra che i film li rispecchino.
In che modo ha lavorato con James Gray, come si sono creati gli ambienti ad hoc per costruire i suoi personaggi?

James è una persona che tiene molto ai particolari e a quello che possono dire riguardo i personaggi e le loro esperienze. A volte si metteva a suonare sul set per creare una certa sintonia, per far sì che l’ambente potesse influenzare positivamente l’interpretazione. È qualcosa a cui James tiene molto.


Come sceglie i copioni che le arrivano? Come li seleziona?

Davvero non lo so. Onestamente è qualcosa di istintivo. È come cercare di spiegare quando ci si innamora, è come quando sei con una persona cordiale e gentile e vorresti essere come lei, è come dire “oh sì, questo è ciò che stavo cercando”.
A volte è un sentimento che non si riesce a spiegare. Accade talmente velocemente che non ce se ne rende conto. Se scelgo una sceneggiatura, di solito lo so subito. È questione di chimica.


C’è un ruolo che le piacerebbe interpretare o reinterpretare? Ce n’è qualcuno al quale è particolarmente affezionato?

A dire il vero, non ho un ruolo dei sogni e di quelli che ho interpretato ognuno mi ha colpito in modo diverso.
Ma è l’esperienza che conta, come quella di lavorare con Philip Seymour Hoffman e Paul Thomas Anderson. È stata una delle esperienze migliori della mia vita. Li amo molto e lavorare con loro è stato qualcosa di magnifico. Penso a quei momenti, a quando giravamo i film insieme e li trovo fondamentali.


La domanda è banale:  c’è un film che le piace molto?

Ah, non saprei! Ho visto Il Dottor Stranamore un sacco di volte, lo stesso vale per Il Padrino, Toro Scatenato e Fratellastri a 40 anni. Se mi capita di vedere un film lo guardo e non posso fermarmi.
Ci sono film di registi, come Paul, che non si possono non vedere e rivedere. E quella è la cosa più bella: quando un film lascia una sensazione di rimando e quando li rivedi provi sempre nuove sensazioni. A volte un film che si vede da bambino lo si percepisce in un modo e una volta che lo si rivede da adulto si sviluppa una relazione differente. Ed è bello notare come un film sia in grado di mutare le emozioni e di darne così tante.
 

martedì 1 maggio 2018

Wes Anderson e la stop motion - Il gran ritorno

Da Berlino con furore (e con un Orso d’Argento in mano per la Miglior Regia) è in dirittura d’arrivo il nuovo film di Wes Anderson, L’Isola dei Cani.
Con L’isola dei Cani, il regista texano ritorna alla tecnica della stop motion, a otto anni da Fantastic Mr. Fox.


L’isola dei cani si snoda come una favola, con tante sfaccettature quanto le facce di un cubo di Rubik.
La favola è ambientata nel Giappone del 2037, e racconta l’impresa del dodicenne Atari Kobayashi, che va alla ricerca del suo amato cane. Quando a causa di una contagiosa influenza canina, il governo decide di mandare in esilio tutti i cani di Megasaki City in una vasta discarica chiamata Trash Island, Atari parte da solo nel suo Junior-Turbo Prop e vola attraverso il fiume per ritrovare Spots, il suo cane da guardia. Una volta atterrato, con l’aiuto di un branco di nuovi amici, inizia un viaggio che deciderà il futuro dell’intera città.

In questo film, Wes Anderson lavora su una relazione affettiva più vasta se si considerano le sue opere precedenti: le strette relazioni familiari vengono relegate ai margini e l’attenzione si concentra principalmente sulle relazioni uomo-animale e tra gli animali stessi, scrivendo un nuovo capitolo circa il legame cane-essere umano (basti pensare a Il Mago di Oz, Lassie, Frankenweenie).

Le sfumature e la sfaccettature che il regista imprime nell’apparente favola convergono su vari temi: la libertà e la difesa del proprio pensiero, l’amicizia, l’accettare il diverso.
Un film dai tratti gentili, talvolta con la stop motion che fa spazio al disegno animato, ma pronto a farsi feroce, contornato da un’amara ironia.
L’isola dei cani è la ripetizione degli stili Andersoniani evoluti ad un livello superiore. Gli avvenimenti sono semplici e costituiti da diverse sfumature create ad hoc per far sì che il racconto potesse essere agevolmente concatenato sui temi base.
L'articolo integrale è su My Red Carpet