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giovedì 12 ottobre 2017

L'uomo di neve - La recensione

Di Egidio Matinata
 
 
L’obiettivo del thriller, dei gialli e del mistery in generale è ricreare l’ordine all’interno del caos.
L’ordine trasmette sicurezza, genera appagamento e rimette ogni cosa al posto che le spetta.
L’uomo di neve non fa niente di tutto ciò.
O meglio, lo fa in parte a livello di trama, ma lasciando comunque lo spettatore disorientato e solo, in balìa del gelo norvegese.
 

Harry Hole, detective uscito dalla penna di Jo Nesbo, è un ‘indagine-dipendente’ come Sherlock, ha la voglia di vivere di Rust Cohle, la delicatezza dei personaggi di Don Winslow e un senso di colpa che parte da Oslo e arriva al Giardino dell’Eden.
Un identikit che si potrebbe applicare ad un buon 70% degli investigatori in circolazione, e non sarebbe stato affatto male se il film avesse seguito le impronte d’inchiostro lasciate dal personaggio, magari non originalissimo ma certamente riuscito.
L’Harry Hole di Michael Fassbender, in una delle peggiori interpretazioni della sua carriera, somiglia vagamente al personaggio letterario (fisicamente, nel modo di fare e nel mostrare i demoni interiori con cui combatte abitualmente), ma tutto sembra essere abbozzato, poco approfondito, dato per scontato.
Questo discorso può essere esteso a tutte le altre componenti del film, nonostante il team possa vantare nomi di tutto rispetto, se non altisonanti: dalla regia (Alfredson) al montaggio (Thelma Schoonmaker), dalla produzione (Scorsese) al cast (Fassbender, J.K. Simmons, Rebecca Ferguson, Charlotte Gainsbourg, Toby Jones).
 
 

Se si dovesse individuare un punto debole in particolare del film, sarebbe senz’altro la sceneggiatura.
Solitamente quando viene adattato un libro al cinema, i puristi tendono a lamentarsi di un’eccesiva semplificazione della materia letteraria (cosa che, rimanendo strettamente alla trama, è inevitabile), mentre in questo caso il plot principale viene sovraccaricato eccessivamente con linee di trama secondarie che non si amalgamano bene e rendono il film sfilacciato, come se ogni scena fosse a sé stante, scollegata dalle altre. Molte di queste linee non giungono ad una vera e propria conclusione, così come non lo fanno gli archi narrativi di quasi tutti i personaggi, che diventano così mere pedine da sfruttare per una “progressione” narrativa.
A farne le spese, in fin dei conti, è la tensione. E se in un prodotto del genere viene meno la tensione e subentra la noia, il danno è fatto e ogni discorso ulteriore diventa sterile speculazione.
 

Il vero mistero, in questo caso, riguarda il film in sé: com’è possibile che un progetto che ha alle spalle nomi di questo calibro, fallisca quasi in ogni sua componente? Com’è possibile che un regista come Tomas Alfredson (Lasciami entrare, La talpa) abbia fatto un film così sgangherato?
Aspettando che l’ordine faccia il suo dovere e che la verità venga a galla, rimaniamo nel caos post visione, un po’ stupiti, un po’ frustrati e molto delusi.

sabato 3 dicembre 2016

È solo la fine del mondo - Juste la fin du monde

Di Egidio Matinata
 
 
Non è la prima volta che Xavier Dolan si affida ad un testo teatrale per un suo soggetto cinematografico; era già successo con Tom à la ferme, tratto da uno spettacolo teatrale di Michel Marc Bouchard.
Juste la fin du monde è tratto da una pièce di Jean-Luc Lagarce, testo che gravitava nella galassia del giovane autore canadese da almeno cinque anni.


La storia parla di Louis (Gaspard Ulliel), giovane scrittore di successo che da tempo ha lasciato la sua casa di origine per vivere appieno la propria vita, il quale però torna a trovare la sua famiglia con una brutta notizia.
Ad accoglierlo il grande amore di sua madre e dei suoi fratelli, ma anche le dinamiche nevrotiche che lo avevano allontanato dodici anni prima.

E non deve essere stato semplice l’approccio al testo, sia da quanto emerge dalle dichiarazioni degli attori, che di Dolan stesso:
<<Laddove un autore contemporaneo avrebbe depennato automaticamente tutti gli elementi superflui e ridondanti, Lagarce li manteneva, li celebrava. I personaggi, nervosi e intimoriti, nuotavano in un mare di parole talmente agitato che ogni sguardo, ogni sospiro tra le righe diventava – o sarebbe potuto diventare – l’equivalente di un momento di bonaccia in cui gli attori avrebbero fermato il tempo.>>


In realtà la tempesta emotiva che dovrebbe colpire lo spettatore, per buona parte del film è paragonabile più ad acquazzoni estivi che si risolvono in breve tempo, lasciando di nuovo spazio ai raggi del sole.
In altri momenti, invece, alcune battute pesano come macigni, riescono ad essere incisive e toccanti: la frase <<La prossima volta saremo più preparati>> della madre è una vera e propria pietra tombale su tutta la vicenda, sancisce la sconfitta collettiva di tutta la famiglia, poiché probabilmente una prossima volta non ci sarà più.

I personaggi sono tutti ben caratterizzati, ma anche facilmente “leggibili” dopo pochi minuti in cui vengono presentati: la giovane sorella (Léa Seydoux) audace, ribelle e attratta da Louis, il fratello rancoroso (un unico fascio di nervi con la faccia di Vincent Cassel), sua moglie, una succube e tremante Marion Cotillard, e infine la madre (Nathalie Baye), vera capofamiglia alla disperata ricerca di un successore che ne prenda il testimone, interiormente esausta ma capace ancora di tirare avanti la carretta.
Si avverte con più forza la coerenza della struttura nella sua totalità che nelle singole parti.
Set up e finale a parte, il film è costruito come una serie di incontri/scontri tra Louis e i membri della sua famiglia (tre collettivi e quattro individuali), in cui la massima aspirazione degli sfidanti può essere il pareggio (anche se il più delle volte è la sconfitta, sempre collettiva, ad avere la meglio), mentre la vittoria non è mai neanche in palio.


Juste la fin du monde è un buon film. Non ha la forza delle opere migliori del suo regista (Mommy e Laurence Anyways), definito giustamente uno “sciamano pop” ["Dolan è uno sciamano pop e allo spettatore resta il piacere di lasciarsi trasportare dalla sua magnifica sarabanda" (Francesco Boille, Internazionale)] e neanche la purezza e l’autenticità dei suoi primi film; vive in un limbo a metà tra questi due universi, coerente con se stesso e con le sue tante sfaccettature.
Sarà sicuramente etichettato come “film minore”, ma non sarà certo la fine del mondo.

mercoledì 18 maggio 2016

The Nice Guys - Un film da montagne russe

Di Egidio Matinata

 
The Nice Guys è un film divertentissimo; una cosa molto banale da dire, ma è certamente un giudizio vero e sincero (e spesso il vero e il banale coincidono).
Si esce dal cinema con il sorriso in volto dopo essere stati sballottati sulle montagne russe per quasi due ore e si avrebbe voglia di continuare a seguire le avventure dei personaggi che sono appena abbandonati.
 
La strana coppia di protagonisti che guida questa folle carovana è composta da Jackson Healy (Russell Crowe), picchiatore su commissione, e Holland March (Ryan Gosling), un goffo detective privato.
Si ritrovano nella Los Angeles degli anni ’70 (libertina, stravagante decisamente trendy, ma anche “marcia, dove lo smog ricopriva tutto come una crosta, e in cui Hollywood Boulevard era diventata un letamaio di pornografia”) per risolvere il caso di una ragazza scomparsa e la morte di una porno star che apparentemente non sembrerebbero collegate, ma che in realtà nascondono una cospirazione molto più grande di quanto possano pensare.
Rispetto a quanto si potrebbe pensare, il film si appoggia certamente sulle spalle dei suoi due ottimi interpreti, ma prima ancora è una sorta di reinterpretazione/rilettura/parodia della letteratura hard-boiled e del cinema noir e poliziesco.
Volendo, si potrebbe dire che il film di Shane Black è un coktail di Ellroy (anche se effettivamente non si tratta di uno scrittore hard-boiled) e Il Grande Lebowsky, il tutto agitato nello shaker del Buddy movie.
Nella struttura si avvicina molto (ma senza aderirvi mai fino in fondo) al poliziesco e al noir, lasciando allo spettatore la sensazione di essere sempre un passo indietro rispetto all’evoluzione della storia e rispetto a ciò che sanno (o pensano di sapere) i protagonisti. Così, man mano che la trama si dipana, gli indizi vanno al loro posto e i casi iniziano ad assumere una forma e una logica; così iniziamo a conoscere sempre di più il passato, i dettagli e le sfumature dei protagonisti.
 
Merito di Black e del suo co-sceneggiatore Anthony Bagarozzi è anche quello di impostare l’azione (non intesa come scene d’azione) tanto sul piano verbale, quanto su quello fisico; il relazionarsi di Healy e March, sia tra loro che con gli altri personaggi, è efficace nei dialoghi ma anche nei momenti di scontro fisico, in cui sentiamo ogni tonfo, ogni scontro e ogni colpo, a volte anche eccessivamente (alla Bud Spencer e Terence Hill).
Ma questo eccedere non da mai fastidio, anche se il registro del film non è improntato esclusivamente nell’andare sopra le righe; c’è anche una vena drammatica, molto lieve e ben calibrata che agisce sullo sfondo.
The Nice Guys è grande cinema di intrattenimento, leggero e divertente, ma solo all’apparenza senza pretese. Nel cast spicca la bravissima e giovanissima Angourie Rice (si, a volte sugli attori bambini si prendono abbagli enormi, ma in questo caso è davvero impossibile non vederne la bravura), oltre a Crowe e Gosling, coppia inedita di eroi fuori dagli schemi e anche maledettamente idioti, che, come in tutte le grandi storie, cambiano rimanendo sostanzialmente gli stessi, in un’avventura ironica, assurda e spensierata.