sabato 5 maggio 2018

L'importanza di chiamarsi Mara - Una chiacchierata con Joaquin Phoenix

Giovedì 26 Aprile.
Io e due amici e colleghi (Matteo Marescalco e Laura Silvestri) ci troviamo sotto il sole del tardo pomeriggio romano.
Sono circa le 19, tra poco più di un'ora saremmo dovuti essere all'anteprima di A Beautiful Day - You Were Never Really Here, film della regista scozzese Lynne Ramsay con protagonista Joaquin Phoenix. La mattina seguente saremmo stati alla conferenza stampa di presentazione del film.

Ci troviamo in Via del Corso, verso Piazza del Popolo, andando piano piano a prendere la metro. Probabilmente Joaquin era già arrivato all'albergo da qualche ora.
Quasi nemmeno il tempo di esternare questo pensiero, che si palesa davanti a noi, in compagnia di Rooney Mara.
Scrivere di cinema (o, quantomeno provarci) non significa non essere anche fan, soprattutto di un attore che noi tutti (almeno, noi tre) stimiamo e adoriamo. Sicuramente uno dei migliori, se non il migliore attore della sua generazione.
Il tempo di guardarci in faccia e già la decisione era stata presa. Proviamo a chiedergli una foto: in fondo, quando ci potrà ricapitare?
Ci avviciniamo timorosi e discretamente lui ci porta in una via traversa alla principale. Pensiamo di averlo infastidito, magari pensa che siamo della stampa scandalistica, ma subito ci presentiamo: cerchiamo di fare i giornalisti e i critici di cinema, siamo studenti e lo stimiamo molto.
Subito iniziaamo a parlare di un po' di tutto: cosa studiamo, cosa facciamo, cosa ci piacerebbe fare, oltre che parlare del Festival di Venezia e del Sundance.
Dopo una decina di minuti a chiacchierare e facciamo qualche foto ricordo insieme a Rooney Mara, coinvolta anche lei in questo episodio ai confini della realtà: invitabile la mia battuta cretina <<Ehi, il mio nome è Mara!>>.
Dopo ciò, ci congediamo, felici di aver parlato con Joaquin, di aver condiviso qualcosa con lui.
Andiamo a vedere il film e ci prepariamo per la conferenza stampa dell'indomani.



Venerdì 27 Aprile.
L'idea di vedere ancora Joaquin ci entusiasma: è chiaro, sarebbe un sogno se si ricordasse di noi, ma non siamo così ingordi. In fondo, già averlo incontrato e aver parlato con lui la sera precedente è stato il massimo che si poteva chiedere.
Al termine della conferenza stampa si va a mangiare un boccone: in quel mentre mi arriva una chiamata da numero sconosciuto. Mi scoccia rispondere, sapendo che si tratterà sicuramente dell'ennesimo call center, ma rispondo comunque.
Mi viene chiesto se sono io uno dei tre giornalisti che la sera precedente hanno parlato con Joaquin, perchè vorrebbe concludere un discorso con noi.
La pizza mi cade dalle mani.
Dall'altra parte del telefono uno degli addetti stampa che si occupa delle attività stampa inerenti al film (che cercava noi tre da una mattina) mi dice <<Puoi contattare gli altri due? Joaquin ci ha detto di cercarvi, vorrebbe parlare con voi. Vi va di venire?>>.
La risposta è scontata: "certo che sì!".
Stupefatti e impanicati, facciamo subito una riunione di emergenza: l'obiettivo è scrivere, in quattro e quattr'otto, delle domande che abbiano un senso.
Ci dirigiamo verso l'hotel, entriamo e ci sediamo. Joaquin ci riceve poco dopo, entusiasta, felice di averci ritrovato.
Probabilmente gli siamo simpatici, ha capito che avevamo e abbiamo qualcosa da dire.
Ma, cosa in particolare, si ricordava il mio nome. Così è bastato fare qualche ricerca et voilà.
Non avessi fatto quella battuta che mi sembrava scema questo articolo non avrebbe modo di esistere e quella piccola porzione dei realtà (per quanto allucinata possa essere) non ci sarebbe mai stata. E l'ufficio stampa non sarebbe mai risalito al sito per cui collaboro (My Red Carpet) e, quindi, a rintracciarmi.
Cominciamo a parlare con Joaquin a ruota libera.
Il suo sguardo è profondo, i suoi occhi sembrano aver visto tutto quello che c’è da vedere, narratori di un’anima saggia e genuina. Una chiacchierata, più che una vera e propria intervista, a cuore e a mente aperta, tra letìzia e malinconia, tra carriera e vita quotidiana.
 
Rendersi conto di quello che è successo è come trovarsi sulla nave di Lancaster Dodd dopo una sbronza e cercare di capire come si è arrivati sin lì.


In che modo un attore come lei riesce a conciliare la persona e l’icona?
 
Quando lavoro, lavoro. La mia vita diventa lavoro e tutto quello che faccio in quel momento gira attorno al quello.
Le persone con cui lavoro diventano miei amici. Ma quando torno a casa, quando torno alla mia vita, porto fuori il cane, gli do da mangiare, pulisco casa. La mia vita torna subito ad essere quella di sempre.
Amo fare film, è molto importante per me ma anche la mia vita personale è importante. A volte credo sia pericoloso mettere il lavoro sopra ogni cosa e dimenticarsi del resto. E vedo che questo accade a diversi attori, che vengono assuefatti dalla loro carriera e la cosa mi spaventa. Certo, la carriera è importante ma non deve interferire con le mie relazioni personali e con la mia famiglia.


Chi è il suo eroe?

Probabilmente mia madre.
È una donna incredibile, quello che fa è fantastico.
Ha 74 anni e gira il mondo per la sua organizzazione. È una persona eccezionale, e cerco di diventare come lei.


Visti i film da lei interpretati, come Quando l’amore brucia l’anima – Walk the line o il mockumentary I’m Still Here, la musica è un po’ il leitmotiv della sua carriera.
Com’è il suo rapporto con la musica? Suona qualche strumento?

Ho imparato a suonare la chitarra per Quando l’amore brucia l’anima-Walk the line ed è parecchio che non la suono.
È buffo, ci stavo pensando l’altro giorno: non lo so, forse sto invecchiando, ma mi sono rattristato un po’ pensando a quando ero giovane, a quando compravo un cd con i miei amici, mi sedevo lì con loro, e lo ascoltavamo tutti insieme, per tutta la sua durata. Ogni singola canzone.
Adesso mi rendo conto di ascoltare meno musica e quando lo faccio c’è questa sensazione che mi fa dire “Ah sì, cavoli! Ricordo questa sensazione! Adoro la musica!”.
Ma a volte non la stessa cosa di quando ero un ragazzino. Forse perché quando ero piccolo non era semplice ascoltare la musica: all’epoca non era così semplice procurarsela. Venivi a sapere che sarebbe uscito il nuovo cd dei Public Enemy, ma si dovevano aspettare mesi per averlo. E ci si precipitava al negozio di dischi.
Però io adoro la musica, tutti i miei fratelli sono musicisti: mia sorella Rain fa parte di diversi gruppi, è una cantante; mia sorella Liberty ha una band della quale non ricordo il nome ma che fino a ieri ha fatto il tutto esaurito; mia sorella Summer è una pianista. Cantavo per strada quando ero ragazzino e , sì, la musica fa davvero parte della mia vita.


Qual è il suo cantante preferito?

Beh, direi che John Lennon è il mio preferito e, cavoli, amo tanto Bowie!

Non le piacciono cose più recenti, tipo le band anni ’90, tipo i Backstreet Boys?
Beh,  c’è qualche canzone che è un po’ impossibile non farsi piacere. Il pop è divertente, ma in certi contesti. Quando ascolto questo genere non mi fa emozionare. Anche se è bello divertirsi e talvolta uscirsene con “Backstreet’s Back, Alright!”


Nei film di James Gray, come I padroni della notte, Two lovers e C’era una volta a New York, i suoi personaggi sembrano dei fantasmi, hanno molti tormenti interiori e sembra che i film li rispecchino.
In che modo ha lavorato con James Gray, come si sono creati gli ambienti ad hoc per costruire i suoi personaggi?

James è una persona che tiene molto ai particolari e a quello che possono dire riguardo i personaggi e le loro esperienze. A volte si metteva a suonare sul set per creare una certa sintonia, per far sì che l’ambente potesse influenzare positivamente l’interpretazione. È qualcosa a cui James tiene molto.


Come sceglie i copioni che le arrivano? Come li seleziona?

Davvero non lo so. Onestamente è qualcosa di istintivo. È come cercare di spiegare quando ci si innamora, è come quando sei con una persona cordiale e gentile e vorresti essere come lei, è come dire “oh sì, questo è ciò che stavo cercando”.
A volte è un sentimento che non si riesce a spiegare. Accade talmente velocemente che non ce se ne rende conto. Se scelgo una sceneggiatura, di solito lo so subito. È questione di chimica.


C’è un ruolo che le piacerebbe interpretare o reinterpretare? Ce n’è qualcuno al quale è particolarmente affezionato?

A dire il vero, non ho un ruolo dei sogni e di quelli che ho interpretato ognuno mi ha colpito in modo diverso.
Ma è l’esperienza che conta, come quella di lavorare con Philip Seymour Hoffman e Paul Thomas Anderson. È stata una delle esperienze migliori della mia vita. Li amo molto e lavorare con loro è stato qualcosa di magnifico. Penso a quei momenti, a quando giravamo i film insieme e li trovo fondamentali.


La domanda è banale:  c’è un film che le piace molto?

Ah, non saprei! Ho visto Il Dottor Stranamore un sacco di volte, lo stesso vale per Il Padrino, Toro Scatenato e Fratellastri a 40 anni. Se mi capita di vedere un film lo guardo e non posso fermarmi.
Ci sono film di registi, come Paul, che non si possono non vedere e rivedere. E quella è la cosa più bella: quando un film lascia una sensazione di rimando e quando li rivedi provi sempre nuove sensazioni. A volte un film che si vede da bambino lo si percepisce in un modo e una volta che lo si rivede da adulto si sviluppa una relazione differente. Ed è bello notare come un film sia in grado di mutare le emozioni e di darne così tante.
 

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