venerdì 30 marzo 2018

Nelle pieghe del tempo - La Disney e lo spazio-tempo

Meg Murry (Storm Reid) è una studentessa delle scuole medie, con problemi di autostima, che cerca integrarsi.
Figlia di due fisici di fama mondiale, è intelligente e ha delle doti eccezionali, come suo fratello minore Charles Wallace (Deric McCabe).
A peggiorare la situazione interviene la misteriosa scomparsa del padre, il signor Murry (Chris Pine): un evento che tormenta soprattutto Meg, convinta che sia vivo da qualche parte.
Il fratello Charles Wallace riesce a mettere in contatto la sorella e un suo compagno di classe, con tre guide: la signora Chi (Mindy Kaling), la signora Cos’è (Reese Whiterspoon) e la signora Quale (Oprah Winfrey). Esse hanno viaggiato sino al pianeta Terra, per aiutare i ragazzi nella ricerca del signor Murry.


Tutti si imbatteranno in un’impresa attraverso il tempo e lo spazio, andando oltre i confini dell’immaginazione, costretti a combattere il male.
Accettare la propria individualità, fare delle proprie diversità un pregio, accettare quelle altrui e sconfiggere la paura seguendo la propria luce: sono questi i temi trattati in Nelle pieghe del tempo.
Eppure Nelle pieghe del tempo semplifica i temi trattati nell’omonimo libro, cerca di renderli adeguati per ogni tipo di pubblico, il più vasto possibile, sorreggendosi per lo più sugli effetti speciali.
Il film stesso prende pieghe differenti, puntando su fiacchi colpi di scena.
Da quello che dovrebbe essere un film dedicato alla famiglie, il film si sviluppa a ondate, talvolta molto infantili, talvolta persino inquietanti (per la serie, siate pronti a coprire gli occhi dei vostri pargoli un paio di volte).
Fatti sintomatici di una sceneggiatura che non sa, appunto, che piega prendere, come anche perdere di vista qualche personaggio e poi riprenderlo a fatto avvenuto.


Sommariamente, Nelle pieghe del tempo è stato pensato per essere un blockbuster patinato, pronto ad accontentare ogni fascia di pubblico, senza mettersi troppo in discussione.
E, dati i temi trattati ed il pubblico al quale si riferisce, non è forse un caso che il film lo abbia diretto Ava DuVernay, regista americana che poco più di tre anni fa si fece conoscere al grande pubblico con il suo Selma – La strada per la libertà, rievocazione delle marce che partirono da Selma nei primi mesi del 1965, segnando l’inizio della rivolta per i diritti civili a favore degli afro-americani, negli Stati Uniti. Come non è casuale la presenza di Oprah Winfrey (che produsse ed intrepretò proprio Selma).



La recensione integrale su My Red Carpet

mercoledì 28 marzo 2018

Ready Player One: l'ennesimo capolavoro di Spielberg

Ready Player One è forse la ricetta migliore di Spielberg: ha preso un recipiente, ha amalgamato tutta la cultura pop degli anni ‘80 e ‘90 (compresa la propria), declinandola al futuro ma guardando al presente.



Nel 2045, il mondo reale è un luogo impervio e ostile. Gli unici momenti in cui Wade Watts (Tye Sheridan) si sente vivo è quando si immerge in OASIS, un universo virtuale dove evade la maggior parte dell’umanità per trascorrere le proprie giornate. In OASIS, si può andare ovunque, fare qualsiasi cosa, essere chiunque, gli unici limiti sono la propria immaginazione. OASIS è stato creato dal brillante ed eccentrico James Halliday (Mark Rylance), che alla sua morte lascia la sua immensa fortuna e il controllo totale di Oasis al vincitore di una competizione, costituita da tre round che aveva progettato per trovare un degno erede. Quando Wade vince la prima sfida di una caccia al tesoro che va oltre la realtà, insieme ai suoi amici – chiamati gli Altissimi Cinque – verranno catapultati in un universo fantastico fatto di scoperte e pericoli per salvare OASIS e il loro mondo.



Il grande lavoro di Spielberg è stato tradurre visivamente una gran parte delle citazioni contenute nell’omonimo libro di Ernest Cline del 2011, dal quale il film è liberamente tratto (l’autore stesso è anche sceneggiatore del film insieme a Zak Penn).
A differenza di film quali Ritorno al Futuro, Ready Player One non estremizza troppo il suo terreno di gioco: esso non vive di soli citazioni per due ore e venti, ma guarda al futuro mantenendo i pieni saldati al terreno della contemporaneità. Ognuno di noi ha bisogno di immaginare, di sognare, ma quando questa diventa la condizione primaria di appartenenza, il modus vivendi, ogni contatto con la realtà viene inevitabilmente perso.
Forse questo tema di carattere sociologico corre il rischio di rimanere in secondo piano rispetto alle molteplici citazioni, ma è possibile che ciò dipenda rispettivamente da ogni singolo spettatore.

Come un videgioco, Ready Player One si sviluppa su molteplici livelli, regalando ad un ampio pubblico tanti punti di vista differenti, coadiuvato dalla colonna sonora completamente originale di Alan Silvestri (ma contenente diversi Easter Egg) che collabora per la prima volta direttamente con Spielberg (in passato aveva collaborato con il regista americano quando egli era solo produttore come, per esempio, per Ritorno al futuro). Così, chi ha voglia di misurarsi a livello citazionistico e tornare negli anni di gioventù, sarà soddisfatto, come lo sarà chi è appassionato di videogame e di tecnologie digitali.



Avventurarsi in questa ricerca all’erede della fabbrica di cioccolato tecnologicamente avanzata, significa rapportarsi agli aspetti umani, alla loro evoluzione, chiedersi se vivere lobotomizzati sia meglio che affrontare il reale, anche se negativo.
Come zio Steven ci ha abituati, Ready Player One non è altro che una storia di formazione, di crescita personale attraverso gli altri, della consapevolezza e accettazione di se stessi e del diverso. La purezza, l’innocenza, i legami e lo stupore spielberghiano nei confronti del fantastico tornano in una veste più matura e articolata che non lascia nulla al caso e cerca di trovare un compimento in via di evoluzione. Un film cinefilo, per cinefili. 


Recensione integrale su My Red Carpet

sabato 17 marzo 2018

Tomb Raider - La prima vera avventura di Lara Croft

Lara Croft (Alicia Vikander) è la figlia di un avventuriero, scomparso quando lei era una ragazzina. Il padre, Richard (Dominic West), ha sempre mantenuto nascosti i suoi veri interessi, a seguito della morte della moglie e madre di Lara: fare ricerche per trovare delle prove tangibili del sovrannaturale. Quello che era iniziato come un modo per poter rimanere in contatto con lei, diventa una vera e propria ossessione che lo porta ad allontanarsi da tutti.

Lara è ormai grande, si guadagna da vivere come corriere in bicicletta, scorrazzando in giro per Londra ed ha sempre il pensiero rivolto al padre, certa che egli sia ancora vivo, seppur disperso chissà dove.
Scoperta la vita segreta di quest’ultimo ed il suo studio comprende che egli, sette anni prima, si era buttato anima e corpo verso un progetto archeologico sull’isola giapponese di Yamatai, alla ricerca di una tomba leggendaria.


Tomb Raider mira in primis all’azione ma senza distaccarsi dalla componente emotiva.
L’azione, resa dalla presenza scontata di numerosi effetti speciali, è dovuta anche alle grandi capacità fisiche e di immedesimazione della protagonista, la scommessa (vincente) Alicia Vikander.
Vedendo il film viene naturale confrontarla con l’Angelina Jolie di quel Lara Croft: Tomb Raider di diciassette anni fa: ai tempi sembrava di essere proprio all’interno del videogioco, con il ruolo di Lara cucito in maniera sartoriale attorno all’attrice stessa. E forse, questo paragone inevitabile, fa sì che non si riesca a godere appieno del personaggio interpretato dall’attrice svedese.
Un viso troppo fanciullesco di certo non aiuta, ma è doveroso notare quanto, in effetti, la Vikander sia adatta ad un ruolo così energico, emotivo, e di grande impatto. Cinque chili di muscoli e oltre sette mesi di workout e di preparazione psicologica hanno fatto sì che potesse realizzare la maggior parte delle riprese d’azione senza controfigura.


In un certo senso il film è umano, l’eroina stessa viene tenuta ben distante dal mito, attenendosi ad una modalità il più possibile realistica.
Tuttavia qualcosa, in questo film, mal si assembla: superficialmente sembra una specie di fusione tra la trilogia di Indiana Jones ed Il mistero dei Templari, declinato in una versione più melò. Se il film si amalgama tra azione ed emotività, non fa lo stesso con i ritmi: staticità e dinamicità sono totalmente slegate una dall’altra, come se il film prendesse lo spettatore ogni tot minuti per poi abbandonarlo sulla poltrona, finché non arriva il successivo colpo di scena.
Un film che, pur attenendosi al videogioco, è stato per lo più un esperimento, ha sondato nuove forme espressive e prove attoriali, per un possibile, quanto probabile, inizio di una futura saga.


La recensione integrale su My Red Carpet