sabato 25 novembre 2017

Detroit - Il passato per raccontare il presente

A cinque anni di distanza da Zero Dark Thirty, Kathryn Bigelow torna dietro la macchina da presa per mostrare un nuovo pezzo di storia americana, concentrandosi sulle rivolte di Detroit dell’estate del 1967.
Ai tempi, Detroit era una città dominata prevalentemente da fabbriche e dalla criminalità, una città in cui la maggior parte della popolazione afroamericana viveva in condizioni di povertà e marginalità, nonostante la presenza di fondi sociali e di una classe medio agiata. Ma la frustazione era tanta e non ci è voluto molto per dare fuoco alle polveri.

Tutto comincia con l’irruzione della polizia in locale apparentemente privo di licenza, dove si sta consumando una festa tranquilla. Tutte le persone partecipanti, quasi tutti neri, vengono arrestate. Nel frattempo, comincia a consumarsi una rivolta locale contro la polizia, destinata ad espandersi in tutto il paese e diventando sempre più violenta.
Tra il 23 ed il 27 luglio viene mandata in città la guardia nazionale, mentre il presidente degli Stati Uniti Lyndon B. Johnson (succeduto nel 1963 a John F. Kennedy, promotore dei diritti civili e della Great Society) decide di far intervenire l’esercito per sedare le rivolte e per il bene della popolazione di colore.
La rivolta di Detroit provocò 43 morti, più di mille feriti, la distruzione di numerosi edifici e ingenti perdite economiche.

Prendendo in considerazione giorni che (purtroppo) sono anche i nostri (l’escalation razziale dell’era Obama ha dato numerose prove di ciò), la Bigelow dà una breve infarinata storica per poi raccontare minuto per minuto la mattanza psicologica e fisica all’Algiers Motel, nel quale tre persone di colore furono uccise e altre sette persone (tra cui due ragazze bianche) vennero torturate e picchiate da poliziotti bianchi, mai ritenuti responsabili degli avvenimenti.
La Bigelow analizza questo breve spaccato storico tramite tre segmenti: la scintilla che ha dato inizio alle rivolte, i fatti dell’Algiers Motel e il vano processo ai poliziotti.

Ma non è la storia la vera e propria protagonista; lo è la psicologia.
Le due ore e poco più sono dedite a sviscerare i moti di rabbia di entrambe le fazioni, della cattiveria gratuita e immotivata da parte di chi teme una prossima e inaccettabile mescolanza razziale e, quindi, stessi diritti e doveri.
Andando oltre la superficialità della lotta tra bianchi e neri, girato con molta camera a mano e con un tocco di documentarismo, Detroit mostra la crudeltà di cinquant’anni fa (non molto diversa da nostri tempi) senza risparmiare i dettagli, ricercando e anatomizzando la storia di ieri per raccontare quella di oggi, calando il velo di opacità da una vicenda che ha tutto il diritto di essere conosciuta nel profondo, anche fuori dai confini nazionali.

Un film sempre nervoso, adrenalinico, un mulinello di vicende e anfratti psicologici che mette lo spettatore a prova di apnea.
Un film che si è servito delle interpretazioni di John Boyega, novello Denzel Washington, in parte passivo ed impotente (come d’altra parte lo siamo noi pubblico), e di Will Poulter, arcigno poliziotto, mostro e creatore di mostri.

mercoledì 15 novembre 2017

Justice League - La triste perfezione del Batman di Ben Affleck

Di Matteo Marescalco
 
 
Chi vi scrive ha trascorso la propria giovane vita alle prese con una mamma estimatrice del lavoro di Ben Affleck (o sarebbe meglio dire innamorata dell'attore americano?). E come criticarla?! Mascella volitiva e fisico da quarterback, Affleck ha attraversato da protagonista, nel bene e nel male, gli anni 2000.
Armageddon, Shakespeare in Love, Bounce, Pearl Harbor, Daredevil, Amore estremo, Hollywoodland sono le tessere che hanno contribuito a costruire quel gigantesco mosaico fatto di odio e amore/fallimenti e vittorie nei confronti di un attore che ha sempre dato l'impressione di avere un talento particolare nell'inimicarsi i pareri della critica che, a sua volta, gli ha spesso riservato il fondo di un oceano viscoso e particolarmente oscuro difficile da risalire.
Come non provare affetto per quel mascellone dalla stazza titanica che incappava in film il più delle volte dalla discutibile qualità? Sguardo perso nel vuoto e bocca semiaperta, Ben Affleck ha sempre dato l'impressione di mettercela tutta ma di non riuscire a raggiungere esiti soddisfacenti nell'arte della recitazione.

 

Fino alla rinascita del 2007 con Gone baby gone e i successivi The Town e Argo che lo porta al secondo Oscar (La legge della notte è stato un totale flop nel mondo, emblema chiarissimo dello sfortunato destino del suo autore). E giù con complimenti, processi di redenzione ed il «Ma quindi non era lui lo scemo della coppia Ben Affleck-Matt Damon!».

Tutto questo preambolo dalla parvenza inutile, in realtà, serve per giustificare l'affetto smisurato che chi scrive prova per il regista/attore americano ed un concetto che innerva il pezzo critico: non esiste miglior Batman di Ben Affleck.

Nessuno meglio di lui è stato in grado di portare sulle sue spalle il peso di un progetto (il DC Extended Universe) nato nel 2013 con Man of Steel (lo stesso anno in cui è stato dato l'annuncio che il Batman post-Christian Bale sarebbe stato interpretato proprio da Affleck) per rincorrere i successi al botteghino del Marvel Cinematic Universe (omologato su un unico tono ma, quanto meno, ben più solido sul versante produttivo rispetto al colpo di coda finale del team DC).
Zack Snyder è stato garante di un'operazione sbilenca, una corsa contro il tempo che ha dato linfa vitale ad un nuovo modo di concepire il blockbuster supereroistico, lontano dal mediocre appiattimento della Marvel, e più vicino ad una concezione autoriale dell'operazione: lo sguardo di Snyder è totalitario sui primi quattro film alla base dell'universo condiviso, rispecchia il suo modo di concepire il cinema come assalto multisensoriale allo spettatore volto a destrutturare l'epica classica di supereroe (e a mettere in scena persino la sua morte). Tutto è andato a buon fine? Non troppo. E quest'ultimo Justice League, primo film totalmente corale del team DC, è la perfetta sintesi degli aspetti più problematici che pendono come una spada di Damocle sul suo capo nonché emblema di ciò che il futuro, molto probabilmente, ci riserverà. 
 
 

La trama è più che mai lineare: dopo la morte di Superman, la Terra è presa di mira dalla più malvagia forza aliena di sempre, Steppenwolf, che approfitta della sua vulnerabilità provocata dalla fine del figlio di Krypton (la vicenda è lievemente più complessa e tira in ballo concetti quali speranza e paura ma, al momento, non è necessario approfondire). Batman, sempre più stanco del proprio ruolo, mette insieme una straordinaria Lega per contrastare il Male. Wonder Woman, Aquaman, The Flash e Cyborg si uniranno e combatteranno insieme in difesa dell'umanità.

Il progetto di Justice League è da tempo nell'occhio del ciclone: pochi mesi fa, Zack Snyder, a seguito di un lutto familiare, ha abbandonato la regia del film e ha lasciato la post-produzione e la regia delle riprese aggiuntive a Joss Whedon, celebre papà degli Avengers cinematografici (insomma, JL è passato al nemico). Il film, inizialmente, sarebbe dovuto constare di due parti, ridotte ad una, abbondantemente superiore alla durata di due ore, ulteriormente limate alle due ore. Abbandono di Snyder ed ingresso repentino di Whedon hanno complicato ulteriormente i piani, finendo per rendere Justice League un prodotto ben più omologato dei suoi fratelli maggiori al panorama del blockbuster contemporaneo e manchevole di una compattezza, nonostante la breve durata. Le atmosfere narrative cupe e la magniloquenza tematica sono state abbandonate per cercare un'ibridazione (i punti di vista di Snyder e Whedon sono diversi) che mina la tenuta complessiva del film.
 

Tuttavia, a maggior ragione, un film così martoriato, con un Ben Affleck in piena terapia riabilitativa per dipendenza da alcool e reduce dal clamoroso insuccesso di La legge della notte, che dice, insieme al suo Batman, di non essere più in grado di tenere le redini del gruppo (l'abisso della sua solitudine, del senso di colpa e del rancore non è mai stato così profondo), crea un incredibile cortocircuito tra finzione e realtà ed attesta la perfezione dell'attore americano per quel ruolo. E se il cuore del progetto DC risiedesse proprio nelle crepe che rendono la sua struttura traballante? Nella goffaggine quasi infantile che caratterizza l'ammissione di colpevolezza di Batman? Se fossero proprio i deragliamenti del tessuto produttivo a far tremare l'ossatura ma a mantenerla, allo stesso tempo, viva? Una clamorosa deflagrazione, nella sua imperfezione ben più perfetta di quella dei precedenti episodi, che porta ad una piena coincidenza tra vicende private e pubbliche e dota Justice League di un cuore gigantesco (lo stesso che, a tempi alterni, abbatte Ben Affleck e gli dona nuova vita) difficilmente ravvisabile altrove.

lunedì 13 novembre 2017

Borg McEnroe - Il tennis oltre il tennis

Wimbledon, 1980.
Ansia, attesa, fibrillazione che non vale solo per il pubblico. Anzi, che vale di più per i giocatori, specie se sono quelli su cui tutti puntano, quelli da cui tutti si aspettano grandi cose.
 
Björn Borg (interpretato da Sverrir Gudnason), nazionalità svedese, capelli biondi come il grano d'agosto, ma freddo, glaciale e potente come un iceberg.
John McEnroe (interpretato da Shia LaBeouf), nazionalità americana, capelli ricci, neri e disordinati come la sua indole vulcanica, atleta dal colpo mancino.
Il film, diretto da Janus Metz Pedersen (già incontrato alla regia del terzo episodio della seconda stagione di True Detective), sviscera il tennis, lo analizza dall'interno per mostrare uno sport che va ben oltre il tennis generalmente concepito. Ma la fatica che ci si mette, come vale poi per tutti gli altri sport, è davvero solo fisica?
 
 
Borg McEnroe risulta un film scisso in due parti intrecciate tra loro.
Dapprima si assiste ad un percorso di formazione, ad un percorso di crescita personale e nei rapporti con il tennis stesso che sfocia nella storica finale di Wimbledon, da intendersi, però, come un punto di partenza per il futuro e non come punto di arrivo.
Successivamente si assiste alla travagliata preparazione e alle varie partite di qualificazione, fino all'ambita finale.

Nella storia del cinema non è mai stata approfondita una tale rivalità sportiva e una tale volontà di dimostrare quanto nello sport sia necessario "il metterci la testa": tra i recenti si potrebbe segnalare solo Rush di Ron Howard.
Il lavoro di Pedersen vuole mettere in campo e dimostrare come due leggende (una leggenda che vive nella leggenda ed una leggenda che invece lo sarà in futuro) non siano altro che uomini, ognuno con le proprie debolezze.
Entrambi gli atleti hanno una cosa in comune: un passato difficile, quello di chi è andato contro tutto e tutti, di chi ha spezzato racchette o legami familiari per raggiungere il proprio obiettivo: diventare un gran giocatore di tennis. Anzi, il migliore del mondo.
Solo che ognuno ha reagito diversamente dal proprio passato e rispetto al proprio presente: Borg, incanalando ciò nella sua racchetta e McEnroe nel dare fuoco alle polveri in momento che si rivelasse proficuo.
 
 
Metz non parteggia per nessuno dei due, forse da più risvolto alla storia di Borg, ma senza mai prendere una posizione, cercando sempre un equilibrio, spesso e volentieri precario, tra questi due personaggi.
Un film nel quale il fattore narrativo viene sovrastato da quello estetico, senza mai scadere nella banalità. Il lavoro di casting è decisamente egregio.
Era impensabile riproporre una finale realistica come fu davvero quella di Wimbledon: il punto a favore del regista danese sta nel fatto di aver voluto presentare una finale che lavorasse sulla psicologia, sull'assetto mediatico, che lavorasse con la cronaca sportiva. Una cronaca talmente verosimile ed appassionante che sarà facile per lo spettatore dimenticare di vedere una partita già vista (per chi c'era) o di cui comunque sa già il risultato. Il contesto diventa frizzante, la partita si fa intensa e si vive quell'ansia e quell'attesa propria di una finale dominata da uno scontro tra titani.
Due rockstar che, a più di trent'anni di distanza rimangono delle leggende per i più vecchi, e lo diventano per i più giovani.