martedì 30 gennaio 2018

Chiamami col tuo nome - Una trasmissione di conoscenza a 360°

Luca Guadagnino è stato uno dei registi maggiormente non compresi degli ultimi anni da gran parte della critica. Forse l’estetica e l’atmosfera intellettuale e borghese, che non ha mai avuto il timore di mostrare, nel nostro paese è stata considerata una mossa altezzosa e di chi pensa di essere saputello.       
L’ultimo film del regista italiano (che si è portato a casa quattro nomination agli Oscar, tra cui Il Miglior Film, oltre che Miglior Attore, Miglior Canzone originale e Miglior Sceneggiatura non originale) indaga la scoperta del diverso se stesso. Si dice sempre : non si finisce mai di conoscere una persona.


Chiamami col tuo nome (adattamento, da parte di James Ivory, dell’omonimo romanzo di André Aciman) è ambientato nel 1983 “da qualche parte, nel nord Italia” (nella fattispecie, i dintorni di Crema).
Un’estate tranquilla quella di Elio Perlman (Timothée Chalamet), che vive nella villa di famiglia del XVII secolo, passando il tempo a suonare e a trascrivere musica classica, a leggere, a rilassarsi, a fare tuffi e lunghe biciclettate.            
La sua esistenza è sempre stata circondata da ogni forma di cultura. Suo padre (Micheal Stuhlbarg) è un professore universitario specializzato nella cultura greco-romana e sua madre (Amira Casar) è una traduttrice.
Ma nella vita di Elio vi è approfondita la cultura e non la conoscenza di se stesso, ancora innocente ed immaturo. Quando arriverà Oliver (Armie Hammer) affascinante studente ventiquattrenne americano che il padre di Elio ospita per aiutarlo a completare la sua tesi di dottorato, tutto acquisterà una visione diversa.

Anche in questo film, Guadagnino non si vergogna e non si spaventa di mettere in mostra membri appartenenti all’ alta borghesia intellettuale, mostrato come mondo idilliaco.               
Nel film l’atmosfera che regna sovrana, quella che permea tra i due ragazzi che coinvolge gli altri membri della famiglia che, per certi, versi possono risultare viziati e un tantino antipatici.
L’ideale sul quale si basa il film è classico, la dolcezza è volutamente ricercata. La macchina da presa indaga i sentimenti di Elio e il suo rapporto con la sfera sessuale in modo approfondito e con una leggiadria non comune arrivando, addirittura, ad assumere un punto di vista pudico ed imbarazzato.

I sentimenti sono sublimati, i cuori sono puri e tutto è contraddistinto da una significativa apertura mentale, con un appello velato (ma non troppo) a togliersi i paraocchi ed imparare a comprendersi e comprendere continuamente.       


La recensione integrale su My Red Carpet

giovedì 25 gennaio 2018

Made in Italy - Il ritorno di Luciano Ligabue alla regia


Made in Italy è la dichiarazione profonda del rapporto fatto di amore e di odio per il nostro Paese, filtrato tramite il punto di vista di Riko (Stefano Accorsi), uomo umile e onesto, alle prese con una vita in cui tutto sembra prendere la piega dell’instabilità (lavoro, sentimenti, futuro).            
Nonostante le difficoltà, Riko decide di vincere sul tempo che corre, rialzandosi a fatica e mettendosi in gioco, prendendo in mano il proprio destino.

Le premesse del cantautore emiliano sono quelle di raccontare l’Italia di oggi sviluppando il discorso già esposto nel concept album omonimo (uscito a novembre 2016), cercando di renderlo più compiuto grazie al mezzo cinematografico e che potesse, quindi, essere raccontato da qualcuno che “avendo meno privilegi di me, mi sembrava avesse ancora più diritto ad una certa incazzatura”.     
  
Un’Italia precaria dove tutto sembra sul punto di crollare, un Paese odierno nel quale “a furia di farsi andare bene le cose si finisce per farsi andare bene tutto”.

Riko lavora come operaio in un salumificio da trent’anni ed esorta il figlio, che deve iniziare il DAMS, ad andare via di casa per crearsi un futuro con le sue mani, senza mai accontentarsi.      
Forse è attorno a questa parola che gira il film: accontentarsi. Quello che Riko ha sempre fatto, accentando una vita fatta di frustrazioni lavorative e sentimentali.

        
Made in Italy rimane un racconto privato (lo stesso Ligabue ammette che l’ispirazione per personaggi ed argomenti viene in buona parte dalla realtà che conosce) posto su questioni politiche ed economiche trattate molto alla buona e in maniera abbastanza superficiale.      
Le canzoni dell’album del 2016 fanno da contorno ad una vicenda che assume l’ambizione, come l’album stesso, di poter essere da tutti condivisibile.



Recensione integrale su My Red Carpet

domenica 21 gennaio 2018

The Post - Una lezione di coraggio per il presente

Nel 2018 è ancora possibile poter parlare di un film di Steven Spielberg, senza cadere nella banalità?
La risposta è no.
Perché volente o nolente, ogni descrizione, ogni scritto, ogni trattato non riusciranno mai ad essere totali, ad esprimere a pieno il suo cinema.
Il primo dei due film che vede Spielberg tornare protagonista nel 2018 (il secondo è Ready Player One, in uscita il 29 marzo) racconta l'America degli anni '70 per raccontare quella attuale.
The Post non è solo la narrazione dello scandalo dei Pentagon Papers (documenti top-secret di 7000 pagine del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti d'America,  studio approfondito sulle strategie e i rapporti del governo federale con il Vietnam nel periodo che va dal 1945 al 1967) che avvenne nel 1971, prima di quello Watergate; è molto, molto di più.
 
 
L'apparenza da thriller politico lascia spazio al dramma personale e familiare (riferito anche alla redazione del The Washington Post): meno battaglia per la libertà di stampa e più battaglia per la parità dei sessi ed una presa di coscienza a riguardo, meno era Nixon più era Trump.
Katharine Graham (Meryl Streep) è la prima donna alla guida del The Washington Post, fatto anomalo in una società dove il potere è di norma maschile, detentrice di grande coraggio tanto quanto quello di Ben Bradlee  (Tom Hanks), scostante e testardo direttore del giornale.
 
 
Quello tra Kay e Ben è un rapporto lavorativo fatto di discussioni e tensioni ma legato a doppio filo dalla voglia di lottare contro le istituzioni, di garantire la libertà di stampa e la sua necessità, mettendo a rischio la propria carriera e la loro stessa libertà.
Il lavoro di Spielberg non è tanto quello di raccontare i fatti riguardanti la pubblicazione dei Pentagon Papers e di accontentarsi così, ma di fare leva sul fatto di più di quarant'anni fa per promulgare un discorso quanto più attuale possibile.
L'occhio analitico ed espressivo del regista americano vuole manifestare quanto sia grande la responsabilità dei politici e dei media nei confronti del proprio paese, quando sia necessaria la libertà di stampa, mostrando la lotta all'interno di un giornale che deve decidere della sua vita e di quelle altrui (con l'aggiunta di interpretazioni eccellenti sia di protagonisti che di comprimari). 
 
 
La macchina da presa danza, rendendo spazi angusti e ristretti come se fossero enormi piste da ballo, mostrando tensione nella sua narrazione visiva (elemento sempre precipuo) che forse pochi altri film dall'impronta giornalistica sanno dare.
Spielberg mostra come un rapporto tra il governo ed i propri cittadini si basi su degli ingranaggi che, se non sono perfettamente oliati, disposti e concatenati, corre il rischio di incrinarsi sempre più e di andare incontro al collasso.
Macchine al servizio del paese, rotative che ne decidono le sorti, una stampa a caratteri mobili che deve essere sempre consapevole del proprio potere e coscienziosa delle proprie libertà.
Giornali che si danzano sinuosi come il movimento di una pellicola mentre viene proiettato un film, stampati e distribuiti a velocità indicibili con il parallelismo vigente ai media odierni, sempre più competitivi, sempre più veloci, sempre meno attenti e sempre più fuori dall'ottica della propria coscienza.

sabato 6 gennaio 2018

Tutti i soldi del mondo - Il caso Getty

Del nuovo film di Ridley Scott si è detto di tutto ed oltre, senza concentrarsi sul film in sé.
Tutti i soldi del mondo narra la storia del rapimento di John Paul Getty  III (Charlie Plummer), rapito a Roma nel 1973 da affiliati della 'ndrangheta.
Il ragazzo non è altri che il nipote di Jean Paul Getty (Christopher Pllummer), magnate del petrolio e noto per essere l'uomo più ricco (e avido) del mondo.
Ma il sequestro del nipote preferito non sarà un motivo sufficientemente valido per pagare il lauto riscatto, tanto che saranno l'ostinazione e la lucidità della madre Gail (Michelle Williams), aiutata dall'uomo della sicurezza Fletcher Chace (Mark Wahlberg), le basi fondamentali per cercare di acquietare la trattativa e per poter recuperare i soldi necessari per riavere suo figlio.
 
 
In Tutti i soldi del mondo, il rapimento Getty, per quanto attinente ai fatti reali, diventa in parte romanzato e quasi utilizzato, forse, come leva per il tema principale: la riflessione sull'influenza occulta del denaro e sul valore degli esseri umani.
Per quanto entità astratta, il denaro è in grado di manipolare concretamente le persone e Getty senior non è da meno: la relazione che il denaro instaura con la sua psiche è dettata dal valore per gli oggetti. Lo Scrooge degli anni '70, non fa altro che accumularne, acquistando dipinti ed opere d'arte (senza non prima contrattare, ovviamente) e pagando quote assai rilevanti senza battere ciglio. L'anziano tycoon non riesce a trovare negli uomini la stessa bellezza pura che trova negli oggetti, perché essi "non cambiano, rimangono sempre gli stessi", mentre sono le persone che mutano.
Insomma un Charles Foster Kane che riempie la casa di oggetti per colmare un vuoto, creato dal suo attaccamento al denaro, che egli stesso non vuole affrontare ma che, invece di rimanere ancorato a Rosebud, resta avvinghiato alla sua abilità di continuare a macinare quattrini in continuazione.
 
 
A sommi capi si potrebbe dire che sostanzialmente che il film non sa dove andare a parare: non sa se concentrarsi sul rapimento o sul personaggio di patron Getty (che tende a prevalere), riversa la sua attenzione verso una serie di generi (thriller, noir, humor) che non si amalgamano bene tra di loro, sfugge totalmente al pathos e si aggrappa a poche recitazioni valide.
Inutile dire che la più valida sia proprio quella di Christopher Plummer, vero motore della vicenda. La sua interpretazione va al di là di ogni dubbio riversato dal cambio in corso d'opera (anzi, a film già concluso) al posto di Kevin Spacey, travolto dal caso molestie.
Il suo Getty è un Paperone gelido, spietato e scacchista ed è possibile affermare che, senza di lui, il suo personaggio non avrebbe avuto lo stesso magnetismo (nonostante i tempi ristretti per la preparazione al ruolo ed i pochi giorni dedicati alle riprese) e, probabilmente l'attenzione si sarebbe rivolta verso altri aspetti del film o non ci sarebbe stata affatto.
Da un Plummer anziano si passa da un Plummer appena maggiorenne, il giovane Charlie, fresco vincitore del Premio Marcello Mastroianni all'ultimo Festival di Venezia e con un talento tutto da scoprire e da coltivare.
 
 
Al di là del can-can mediatico che ha ruotato attorno a questo film, di Ridley Scott si può dire tutto tranne che sia un "vecchio decrepito". Quello che si può dire è che il regista britannico di Alien e di Blade Runner si sia adagiato un po' troppo sugli allori, facendo del cinema che perde energia, vitalità e profondità film dopo film.