domenica 27 marzo 2016

Batman vs Superman - Il film d'orchestra della Dc Comics

Quando compaiono sullo schermo, e nelle nostre vite, film come Batman vs Superman, bisogna un attimo dotarsi delle capacità di scissione e, al contempo, di visione d’insieme.
Come il mondo Marvel ci ha insegnato, i film dedicati ai crossover e alla dimensione orchestrale prima o poi devono arrivare e finalmente (o forse no) è giunto il momento per la Dc Comics si passare a questo gradino successivo.
Ma se è pur vero che la Marvel ci ha abituati a un’orchestra che sfrutta ogni tipo di contesto per esprimere al meglio l’entità dei superpoteri, Batman vs Superman non è di questo avviso: il concerto che ne esce è composto solo dagli esiti che tutti gli strumenti e gli assoli previsti nella partitura sprigionano.

In un film come questo, i singoli membri devono essere ben costruiti per far si che la visione d’insieme possa essere adeguata sia alla vicenda che all’aspettativa (che inevitabilmente si crea).
Ma se per Superman le premesse caratteriali e stilistiche erano già state poste con L’Uomo d’Acciaio, l’impossibilità di citare e ripescare pezzi del Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan (per ovvi motivi, visto che la sua trilogia è a circuito chiuso) ha reso necessario rigettare quelle basi, già viste più volte, per dare vita ad un uomo-pipistrello più maturo, più impotente, più drammatico e con più rabbia e vendetta che sangue nelle vene.
La ripresa di Man of Steel era comunque obbligatoria per riunire il tutto sotto uno stesso contesto; questa volta, però, lo scontro Clark Kent/generale Zod è posto dal punto di vista delle vittime/dei salvati. Una via che, bene o male, verrà sempre perseguita per tutto il film (perché non dimentichiamoci che i nostri supereroi sotto vittime anche loro).
La carne che Zack Snyder mette al fuoco, è veramente tanta. Due ore e mezza risultano essere forse troppe se si segue la pista dell'irosità di Wayne e delle quasi messa in croce di x-meniana memoria di Superman, ma diventano davvero poche, quasi irrisorie, se si vogliono prendere ad uno ad uno tutti gli ingredienti che sono stati usati per questo minestrone.

Batman vs Superman è quel film che cerca di narrare e di far vedere di tutto un po’, sbagliando la durata di ogni singolo frangente.
Il dramma è cercato ma poco coltivato, la storia d’amore tra Clark e Lois (Amy Adams) viene mollata e ripresa più volte (risultando anche un attimino fastidiosa), Diana Prince (Gal Gadot) è più presentata come una bella figliola che come la Wonder Woman trasformista e dalle mille peculiarità, che compare quasi per caso nelle sue vesti metalliche, e saltella un po’ ovunque (e che manca, quindi, di adeguata introduzione).
Tuttavia gli argomenti che emergono di più dal lavoro di Snyder & staff/cast, sono essenzialmente due: l’importanza dei genitori e di una famiglia che ti sostenga alle spalle e del ruolo sociale, culturale e mistico che dir si voglia, che viene valutato (e rivalutato a seconda dei contesti che si potrebbero creare) in base a quel/quei superuomo/ini che appartengono alle diverse epoche.
E in questo futuro post-apocalittico, le riflessioni vengono poste da due frangenti: il gruppo della società, che di riffa o di raffa si ritrova a seguire i timonieri della stampa e del governo, ed il sempre più ricco e solitario Bruce Wayne.
Le riflessioni sono direttamente provenienti da L’Uomo d’Acciaio e dalla figura pseudo-messianica di Superman, uomo dell’altro mondo che, un po’ involontariamente, si pone come nocchiere di quella nave in tempesta che Dante citava nella sua Divina Commedia.

 Ma questo divin-capitano non sa che non può (e non deve) permettersi di fare errori, pena rivalutazione sociale e culturale di cui sopra.
E allora da semidio si appresta a diventare martire dei suoi affetti più cari, soggetto di un referendum politico, popolare ed individuale che ricorda gli x-men dei primi tempi, ma di forma più mitologica; profanando un po’, ne Il Codice da Vinci si diceva (in ben altro contesto) “Chi è Dio? Chi è uomo? Quanta gente è stata ammazzata per questa domanda?”; ma la domanda che ci si pone è anche se questo nocchiere-salva-equipaggio lo si voglia davvero e se sia così necessario che ci sia.

 E allora lo scontro diventa tra potenza terrena e celeste, tra Gotham e Metropolis, tra superpoteri ed equipaggiamenti, tra vendetta e sofferenza, tra un costume-fortezza, cupo come chi lo indossa e la leggerezza di colui che va incontro al suo destino.
In tutto questo caos che non riesce a dare una caratteristica emozionale e coinvolgente importante, il Superman di Henry Cavill è molto più definito e convincente di quello che era in Man of Steel, mentre Ben Affleck è riuscito a dare al suo volto attoriale (che sta dando una svolta, paradossalmente, sono negli ultimi anni, tra cui il riuscitissimo Gone Girl) quel taglio drammatico e rancoroso che forse nessun Batman prima di lui aveva posseduto (salvo il fatto che il fardello lasciato da Christian Bale è davvero importante).
La mezza punta di merito va a Jesse Eisenberg, nei panni del psicopatico Lex Luthor. La punta è smezzata per il solo fatto che il suo personaggio sia stato scritto proprio maluccio; una sorta di Joker che gioca a poker e cerca di calare i suoi assi più importanti, equivalendosi, da solo, come un semidio pseudo-nerd.
L’esasperazione di Eisenberg è, forse, quasi estrema; ma la sua è una bravura trasformista e, stando un po’ a tutti i fatti, ci si potrebbe pure passare anche sopra.

 La spessa nota di demerito va alla CGI di Doomsday, che pare riciclato da mille altri film (Il Signore degli Anelli e Avengers: Age of Ultron, per citarne un paio) e che sembrano davvero tutti uguali.
Infine ottima e di gran effetto la colonna sonora del sempre eccelso Hans Zimmer.
Tutto sommato un film che tenderà, ovviamente a dividere e contrapporre, ma che pone le basi per quello che sembra un succulento Justice League Parte 1, che dovrebbe uscire a fine 2017.

domenica 13 marzo 2016

La Corte - L'amore mai sopito

Di Matteo Marescalco
 
 
La scorsa mattina, a Roma, Fabrice Luchini ha presentato La corte, film già proiettato all'ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia che, tra l'altro, gli è valso il premio Coppa Volpi come Miglior Attore.

Il prodotto di Christian Vincent (con cui Luchini torna a lavorare 25 anni dopo La timida) dimostra che, nell'epoca dell'ubiquità digitale, è ancora possibile che la regia sia assolutamente asservita alla sceneggiatura ed alla drammaturgia degli eventi.
 
 
La storia è semplice. Ne è protagonista Michel Racine (nomen omen), temuto Presidente di una Corte d'Assise, alle prese con un caso di infanticidio. La naturale freddezza del giudice viene sconvolta dalla presenza, in giuria, dell'unica donna che Racine abbia mai amato, quasi in segreto. Riuscirà questo tiepido raggio di sole a sciogliere il glaciale giudice?
 
Dopo un inizio di conferenza sotto le righe, Fabrice Luchini ha tirato fuori tutto il suo istrionismo, trasformando la sua noia per l'evento in divertimento per i giornalisti presenti in sala, variando da Nanni Moretti, incontrato la sera prima («Veste come un professore degli anni '80»), alla dittatura mediatica berlusconiana, e ancora dalla situazione del cinema francese contemporaneo fino ad ipotetiche lezioni di eloquenza da impartire a Hollande.
L'attore è un fiume in piena e, tornando serio, si sofferma anche sull'umorismo: «Siamo ormai schiacciati ed imprigionati dall'umorismo. Tutti ormai ridono e devono fare ridere. Il vero humor è rottura degli equilibri. Oggi, invece, è istituzionalizzato, controllato. E quando l'umorismo è sotto controllo genera una risata meccanica e triste. L'umorismo è diventata una pratica per piccoli borghesi mediocri e la sua carica trasgressiva non esiste più.».


Luchini indossa una sciarpa rossa, la stessa che porta sempre con sé Racine, il protagonista de La corte, l'unica nota di colore che concede alla propria vita austera, illuminazione cromatica che lascia presagire l'incontro con la donna amata e che getta un velo di speranza sul suo futuro affettivo. Ma, più che un giudice, Racine è un attore e l'aula giudiziaria è il suo palcoscenico.
A tal proposito, ha detto il regista: «Ho scoperto che la corte è un po' come un teatro, con il pubblico, gli attori, la sceneggiatura e le quinte. C'è un ordine prestabilito. Ma principalmente è il regno della parola, fondato essenzialmente sulla natura orale del dibattito.».
 
Colpisce del film l'attenzione riservata alla trattazione dei dettagli e degli sguardi magnetici dei personaggi che svelano rapporti inaspettati. «Angoscia umana, poetici voli della fantasia, lunghi momenti di noia, fugaci momenti di familiarità, rivali in campo ai ferri corti, bugie, verità che si contraddicono l'un l'altra e tante domande che rimangono senza risposta». Dopo la presentazione della situazione e la successiva costruzione della tensione, si raggiunge il vertice della tensione e l'inaspettato coup de theatre, tanto amato da Racine. La situazione è capovolta, prestandosi a differenti chiavi di lettura. E la macchina da presa provvede ad intrecciare detection e sottotrama sentimentale, trasformando il processo in una sorta di (auto-) analisi del personaggio principale e del meccanismo filmico, che mette in scena se stesso.
Oltre ad essere un attore, il primattore, Racine è anche il direttore d'orchestra, il metteur en scene. Che ha, tuttavia, perso le coordinate della propria esistenza sentimentale.
 

«How's it going to end?» recitava la spilletta indossata dall'unica donna che il protagonista di The Truman Show avesse mai amato. Come andrà a finire il processo? Verrà individuato il vero colpevole? «Non importa che la verità venga raggiunta o meno. Ciò che conta è far si che la giustizia venga applicata» precisa un fin troppo freddo e pragmatico Racine. Il giudice rivedrà le sue affermazioni?Al di là di un racconto magistralmente portato in scena dagli interpreti, oltre le parole su cui è innestato il cinema classico, risiede l'immagine, un delicato movimento di macchina che svela un'emozione. Uno sguardo puro e cristallino.